di Adele Cambria
("Il Giorno", 28 luglio 1986, pag. 3)
«Il borghese non son io che tralappio d'un giorno all'altro / coprendomi di sudore / tutto concimato... Difendo i lavoratori / difendo il loro pane a denti / stretti caccio il cane da / questa mia mansarda piena di impenetrabili libri buoni... Se non mi salvate da queste / strette, stretta la misura / combatte il soldo e non v'è / sole che appartenga al popolo!».
Sono appunto nella mansarda di Amelia Rosselli, un'unica stanza spericolata, attraverso il minimo balconcino, sulla vertigine barocca della cupola e dell'abside della Chiesa Nuova. Ho scelto questi versi, dal suo ultimo poema, «Impromptu», premio Pasolini 1981, perché mi sembrano in qualche modo di essere, di definirsi, e, con feroce pudore, chiedere aiuto (ma non per sé, per tutti).
Pallidissima, magrissima, con occhi celesti dilaganti (a vent'anni, m'hanno detto, somigliava a Ingrid Bergman), con quel suo modo di parlare beneducato, attento a non disturbare gli altri (un tipo d'educazione quasi inverosimile oggi). Amelia osserva che «non bisogna esagerare...»
Non capisco: «Non bisogna esagerare in che cosa?».
«Esagerare a scrivere, - mi risponde -, Vedi, ho già pubblicato nove libri. L'anno prossimo esce la mia opera completa. Duecentocinquanta pagine di poesia. Bastano».
Conosco Amelia dal 1965. Ero ammalata, lei venne a trovarmi in clinica, eppure l'avevo incontrata una sola volta, prima, ma era come se avesse percepito tra lei e me un filo di comunicazione indicibile, quello star male senza una ragione che non fosse, semplicemente, la vita. Per lei, si capisce, c'entrava, alla grande, la Storia: la storia della famiglia Rosselli, dell'antifascismo, la tragedia dell'uccisione del padre, quando lei aveva sette anni, l'emigrazione negli Stati Uniti. Me ne mostrò poi la foto, il giorno dell'imbarco, sette bambini, le due giovani vedove in lutto, la nonna Amelia, da sempre e per sempre, con dolore e coraggio, capofamiglia.
Tra quei sette bambini d'allora - quattro figli di Nello e tre di Carlo - Amelia è forse l'unica ad avere accettato la Cosa (che ha nome Dramma) come Evento Logico. Il suo tentativo continuo, da quando la conosco, è di sbriciolare l'epopea storica che le grava, dalla nascita, sopra le spalle, in una geometrica stravaganza del quotidiano, dove fioriscono grazia e malinconia. Nessun risentimento, nessuna invocazione di indulgenza, nessuna elaborazione filosofica o, tantomeno, psicoanalitica delle vicende traumatiche originarie della sua vita. L'esito di tanto pudore e intelligenza è la sua scrittura, da alcuni definita «sibillina», eppure sotterraneamente attraversata dall'esperienza di un vissuto eccezionale. Per esempio, dal «Diario ottuso» del 1968 (non ancora pubblicato in volume) leggiamo: «... Non pensava di morire, o di morirne, o di dover accettare la pietà altrui... Ora la sapienza, o un barlume, una briciola di sapienza... la risvegliarono e le fecero capire alcune cose. Capì di avere subito un danno, capì che il suo orrore per il malfatto altrui era da considerarsi con indifferenza, perché essa poteva raggiungere ben più alte mete dello spirito, la sua fame di Dio per un istante soddisfatta; anzi si distaccava dalla superficie della terra e lottando chiedeva più pace, più dolcezza, il perdono a sé e agli uomini, senza sapere molto degli uomini ma comprendendone troppo i calcoli, le crudeltà».
Così, segregata nella sua mansarda, come Emily Dickinson nel suo giardino puritano, Amelia smaschera il mondo e tuttavia, con impietosa dolcezza, si rifiuta di condannarlo. Anche per lei, come la Dickinson, Dio è «un'Eclisse che chiamano Padre»?
Certo che ogni giorno, con indomabile gentile pazienza, Amelia contratta vita e poesia alle voci (telefoniche?) che la spiano e inseguono (dal telefono, dal televisore), a volte impartendole ordini «Non leggere, non scrivere» - oppure la costringono ad uscire di casa all'alba ed intanto «qualcuno» mette a soqquadro la sua roccaforte, la mansarda. Tutto ciò, se è obbligata a spiegare, lei lo chiama «noie»... e lucidamente, una volta sulla rivista «Nuovi Argomenti», scrisse della «origine del male...»: «Da dove partano certi attacchi a volte resta un mistero, o un mezzo mistero... Fu un medico ad avere il coraggio di accusare e specificare l'origine del male... La malattia era la Cia...».
«Ha due grandi occhi azzurri, capelli biondi (molti), un naso che appartiene alla famiglia delle patatine...».
Scrivendo alla madre, rimasta a Firenze, Carlo Rosselli le annunciava così la nascita a Parigi, della nipotina che avrebbe portato il nome di lei.
Nasceva, questa bambina, in un esilio già insidiato e insicuro, dopo la fuga avventurosa di Carlo dal confino di Lipari, ma l'atmosfera di casa Rosselli era ancora addolcita dagli agi, dal gusto raffinato degli ultimi barlumi della Belle Epoque, e, soprattutto, dal fervore degli effetti: l'amore costantemente «innamorato» tra marito e moglie, Carlo e la sua compagna inglese, Marion Cave (sarebbe morta, nel 1947, in miseria, in un ospedale londinese): l'idolatria del figlio (di entrambi i figli), per la madre, quell'Amelia Pincherle Rosselli che, da sola, aveva cresciuto Aldo (morto poi a ventun’ anni nella prima guerra mondiale), Carlo e Nello, in un clima di insolita ricchezza di fermenti culturali e politici: infine, la gioia per la nascita, quella di Amelia, che seguiva di poco più di un anno, l'altra del primogenito, John, detto in famiglia il Mirtillino.
«Mia madre era molto più avventurosa di mio padre», racconta ora Amelia. «Soltanto negli ultimi tempi cominciò a fare i discorsi che di solito fanno le madri... Sognava, per me, un armadio colmo di biancheria da corredo, profumata di lavanda... Lei era figlia di un maestro laburista, venne a Firenze a fare l'istitutrice, credo, perchè i medici le avevano ordinato il clima italiano, e cominciò a frequentare il circolo Salvemini, incontrando mio padre...
«... Ma il rapporto con mia madre, negli ultimi anni, era diventato difficile... Io non amavo l'Inghilterra, dove lei si era rifugiata per curarsi, lei si preoccupava perché io avevo deciso di studiare musica, teoria, composizione... Invece la nonna non mi scoraggiò mai. Quando scrissi il mio primo saggio sul diapason, ne fu fierissima... ».
Fa una pausa, e poi: «Non credo che il ritratto della nonna, tracciato da mio cugino Aldo, nel suo libro "La famiglia Rosselli", le rassomigli davvero. Mia nonna non era quella sentimentale un po' puritana da cui, secondo Aldo, il nonno Joe sarebbe fuggito perché la severità di lei lo castrava. Lui era un musicista, ma il fatto è che non aveva avuto fortuna, nel suo campo, e invece le commedie che la nonna scriveva avevano successo... Penso che Aldo, da bambino si sia sentito come sopraffatto dalla dominante matriarcale della famiglia ed abbia sognato, si sia inventato questo nonno...».
Dei tre figli di Carlo Rosselli, Amelia è l'unica ad avere scelto di tornare in Italia. John e Andrea, i suoi fratelli, hanno tacitamente rifiutato una patria che invece per Amelia è stata una caparbia, faticosa, a volte anche allegra conquista. A partire dalla lingua. L'originario trilinguismo (francese, inglese, italiano) della bambina esule è stato tradotto sapientemente dalla poetessa [sic! gdc] in quei «veri e falsi lapsus», come li definì Pasolini, che sono uno dei fascini della sua scrittura. La mite e ferrea ed altissima pretesa di Amelia è quella di scrivere una poesia che suoni tale in tutte le lingue: come lei stessa ha spiegato in un saggio, il tentativo è di «obbedire a un'esperienza sonora logica e associativa che è certamente di tutti i popoli e reflettibile in tutte le lingue».
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