Tratto da Manifesta n°1 luglio 2002
Portavano corone di gelsomino intrecciate sui lunghi capelli, biondi, fulvi, bruni e clamidi di velo trasparente e fiorito sui corpi aggraziati e giovani. Nonostante il nome mitico minaccioso che si erano date, “Le Nemesiache”, nulla era più innocente della loro provocazione: rievocare, a partire dall’immagine, il tiaso dell’antica Grecia, dove sublimi maestre, come Saffo, insegnavano alle giovinette musica, poesia,amore, prima di quel matrimonio che le avrebbe relegate nei ginecei. L’animatrice, l’ispiratrice, la filosofa, di quel collettivo femminista napoletano, nato in anticipo, nello scorcio finale degli Anni Sessanta, e che aveva eletto la bellezza come canone assoluto dell’esistenza, era lei: Lina (Il suo cognome era buffo, Mangiacapre, ma Lina lo portava con disinvolta eleganza). Ora che lei non c’è più, sono le sue immagini, le immagini, le visioni, che soltanto lei era capace di suscitare- e non sarebbe inesatto osservare che Lina-Nemesi ha firmato giorno per giorno la sua vita, e non soltanto la sua, come “opera d’artista”- sono quelle immagini di bellezza, di poesia, (di incubo o tragedia a volte), ad affollarsi per prime alla mente. In un tempo che ha “abiurato” la Bellezza, Lina ostinatamente la perseguiva: nel quotidiano e, fino alla radice del quotidiano, con una coerenza ineluttabile: lei produceva il Pensiero della Bellezza, e contemporaneamente, e disperatamente, disperatamente sola, (alla fine precoce e inaccettabile dei suoi giorni), lo praticava. Perciò, io credo, Lina allarmava, diffondeva allarme anche tra le donne “emancipate”, o, meglio ancora, femministe. Sottolineo l’avverbio”meglio”: è quello che voglio usare qui, non il suo contrario, “peggio”: che pure sarebbe tanto facile gettare in mezzo a questo discorso, inabissandolo nella volgarità. Perché ovviamente il femminismo non sarà mai, non per me, almeno, fino a quando vivrò, una cosa che può essere definita con l’avverbio “peggio”. E non lo sarà anche perché ho conosciuto, ho frequentato, ho amato, ho temuto, ho fuggito, (anche, talvolta), proprio lei, Lina. E Lina “ci” allarmava. Voglio precisare: allarmava noi (e forse assai più di quanto non spaventasse gli uomini, in realtà sempre morbosamente attratti dal sua sensualità proibita). Lina allarmava le donne, anche noi femministe, con quella sua immagine seduttiva e ironicamente “doppia”- maschio, femmina, androgino - a partire dai suoi abiti tutti inventati, e che, per decenni, hanno precorso la Moda: le tuniche, i pepli trasparenti, nella sua stagione “prima”, e poi il dark, il punk, i metallari, cioè il nero cupo, definitivo, siglato dal minaccioso acciaio di inquietanti fibbie, alamari, cinture, stivali. Il popolo della notte, le creature vaganti in folla dentro quegli enormi garages attossicati da fumi, da vapori chimici verdastri violetti, e rimbombanti di suoni insostenibili, quei luoghi che chiamano discoteche (e scusate la mia ripugnanza, senza dubbio generazionale), Lina li aveva partoriti dalla sua mente profetica assai prima che le mode ce li imponessero, precipitando sopra di noi dagli States o da Liverpool, Londra etc. Tra l’altro, l’avversione, l’ostilità sua “naturale”- ed era lei stessa a definirla “naturale” - per la lingua inglese, basterebbe ad escludere ogni sospetto di una impossibile impensabile “copiatura”. Quante volte, del resto, mi faceva “cadere le braccia”, replicando, ai miei suggerimenti di formichina saggia - tipo “Non sarebbe meglio che andassi qualche tempo sui set cinematografici, come aiuto, per imparare la tecnica, prima di girare un film tutto tuo?” - con una frase definitiva, pur nella sua “divina” dolcezza (la pronuncia, il tono, il sorriso, quella voce rauca e sussurrata, tutto era dolce e tragico, in lei.): ”Vedi Adele -mi diceva- io non posso imparare nulla, tutto quello che so, tutto quello che so fare, lo sapevo già nascendo”, “Ma ti sei pur laureata in Lettere e Filosofia col massimo dei voti e la lode!”, le opponevo (le prime volte), esasperata nella mia logica pignola e, chissà, “impiegatizia”. La verità era che la normalità, la medietà, era improponibile ad una creatura come Lina. Così com’era insostenibile un rapporto medio, normale, costante, con un essere “dell’altro mondo” com’era lei: i primi anni in cui la frequentavo - lei e le altre, le “divine fanciulle” del suo tiaso (Niobe, Elena, Dafne.) - dopo otto giorni di avido apprendimento e “pascolo celeste” in quell’universo di piaceri – ondeggiare di veli su corpi efebici, musiche e danze soavi, nutrimenti perfino divini (i cannoli di ricotta, le cassate napoletane), e la vista sul mare di Posillipo, dalla sua casa-altana - fuggivo per ritrovarmi davanti a un serial televisivo. Non so se ho reso l’idea (rozzamente, volgarmente, certo.). Il fatto è che la banalità fa parte dell’umano (credo.), ma Lina, per miracolo o tragedia, non poteva, non sapeva essere banale. Le mancava il gene della banalità. Ma non basta, me ne rendo conto, pur se mi dà una grande consolazione, “citare” le immagini di cui il suo passaggio su questa terra ci ha colmato (e lasciatemi usare, per lei, le parole giuste di una religiosità che non ha nomi o gerarchie). Per me, personalmente, i regali cominciarono dalla sua psicofavola, la prima, “Cenerella”, che vidi a Napoli nel remoto 1971: e poi si incastonò, dentro la riscoperta del Mito al femminile (che Lina ha donato, mai riconosciuta, a tutto il Movimento), come un anello d’oro che ci ha legato entrambe in una sorta di “nozze intellettuali” (mille volte fui tentata di rinnegarle e qualche volta, forse, le ho rinnegate.), la sequenza del Topo, della Serpe, e della vecchia Palma quasi centenaria. Accadde in una ardente estate calabrese, nel giardino d’agrumi di mia madre, (vigile e calma presenza femminile sapiente, quella di mia madre: che Lina adorava, divertiva e mi aiutava a capire. E rabbrividisco pensando che se ne andata appena pochi mesi dopo di lei). Noi due scrivevamo, all’ombra della palma che mio nonno aveva piantato per celebrare la nascita della figlia, la sceneggiatura del film ispirato al mio romanzo, “Dopo Didone”. Il film , cui Lina volle dare il titolo di “Didone non è morta” (un titolo che in questo momento non può non sembrarci augurale.), ripropone la storia di Didone ed Enea, raccontata in versi amorosi sublimi da Virgilio, come il conflitto lacerante di una donna “di potere” (per dirla con l’orrenda e spero già scaduta terminologia degli Anni Ottanta), divisa tra la passione per un uomo e la libertà e la responsabilità femminile verso gli altri, intesi come comunità anche politica. Didone si uccide, perché non potrebbe mai seguire Enea come una moglie, lei regina e condottiera del suo popolo (“E adesso che cosa farò? Seguirò la flotta dei Troiani, starò ai loro comandi?”): e, d’altra parte, Enea, il “pio Enea”, ha tentato di salpare furtivamente come un ladro, dal porto di Cartagine, verso il suo nuovo “destino di gloria” (la fondazione di Roma), e alla giusta furia della regina -“Lo presi morto di fame, gettato sul mio lido dalla tempesta, lo misi a parte del mio regno, pazza!”- risponde (prototipo del maschio in fuga, nei secoli dei secoli.): ”Io mai ti tenni discorsi di nozze, o pensai di sposarti”. Ecco, mentre scriviamo questa scena, un gran frastuono animale agita l’immoto paesaggio affogato nella calura (le tre del pomeriggio): e balza dal fogliame (al tronco della vecchia palma si aggrappava un folto cespuglio di gelsomino) un grande topo di campagna, inseguito dal sibilo di una serpe, che si snoda nell’aria disegnando per un istante, nero-verde e lucente nel chiarore meridiano, il segno del suo corpo, una lucida S, e poi sparisce all’inseguimento della preda. Paura, risate, mia madre che smorza l’eccitazione con la sua antica conoscenza dei luoghi, e degli “abitatori” dell’agrumeto: ”Non è una serpe, è una biscia”, sorride ironica. Ma per Lina, e alla fine anche per me, resterà sempre quella visione (che molto, ci penso ora, sarebbe piaciuta allo psicoanalista junghiano James Hillman), una “figura” simbolica della Regina furente ed offesa, che insegue il vile topo di campagna atterrito, il “pio Enea” Dicevo: non bastano le immagini, le illuminazioni, i ricordi, pure vivissimi come i miei, a dire l’essenza di Lina. Servono i suoi scritti, e, tra i suoi scritti, due, fondamentali, il “Faust-Fausta”, e la “Pentesilea”. (Su questa sua seconda opera, ho ritrovato una mia lettera abbastanza chiaroveggente, purtroppo, scritta per la presentazione del libro a Napoli, nel 1998, e che Manifesta pubblica a parte). “Faust-Fausta”: dal “romanzo filosofico”(come recita il sottotitolo del libro), Lina trasse in seguito un film, proiettato - come del resto era stato anche per “Didone non è morta” - alla Sorbona di Parigi: il suo “Faust” cinematografico fu poi invitato a Villa Medici, a Roma, nell’ambito del festival dedicato all’opera maggiore, “opera titanica” è stata definita, di Wolfang Goethe. Ma è il libro di Lina che qui mi interessa. Pubblicato da una casa editrice fiorentina nel 1990, soltanto ora, forse, ad una rilettura tragicamente “in assenza di Lei”, mi sembra di poterne penetrare il senso: è in queste pagine, quasi urlerei (in un inutile urlo tardivo), che l’Autrice ci consegna la chiave della sua esistenza. Ed a me, che rimpiangevo (per il mio imperdonabile “vizio” estetizzante), la sua prima stagione di pepli, veli, danze e corone e collane di gelsomini, Lina-Nemesi-Faust-Fausta fornisce la spiegazione di quel suo passaggio al nero, al cupo, al funebre, al “lutto di Elettra”. Così: ”Faust inizia il suo cammino maledetto; perde la melodia della voce; i suoi capelli teneri e ricchi d’oro diventano opachi; davanti agli occhi una sola strada. Il cupo e il nero tingono, unico colore,interno ed esterno” Perché la protagonista del romanzo, Fausta, ha chiesto “a Satana, in cambio della sua anima, di diventare uomo, di vivere il suo maschile, senza più i limiti di questa androginia che le impedisce una vera identità e poi la libertà”. E quando fa questa scelta, quando chiede di poter diventare Faust, Fausta ha già sperimentato la delusione dell’intelligenza oppure l’effimero della passione femminile (“Come uomo non ama di più gli uomini né desidera ormai le donne che disprezza”). Ma il dissidio originario della protagonista - un dissidio corpo-anima, cielo-terra, che la segna dalla nascita - consiste nel suo rifiuto di accettare, di riconoscere l’appartenenza ad una specie biologica, quella umana (che è anche, fatalmente, inguaribilmente “animale”): e di cui ha ribrezzo. “Vestivo di bianco con i capelli biondi e diafani, suonavo il violino confondendomi con gli angeli. Gli angeli non hanno sesso e certamente, poi, non hanno un corpo di donna. Ma il destino, mia madre, mi aveva dato un corpo, due gambe e dovevo camminare sulla sporca terra e mangiare.” Il rifiuto del corpo (ma lei diceva, scriveva, anche, soprattutto della mente, di quella mente che per esistere ha bisogno del corpo.) “Fausta ricordava tutte le sue rivolte: non voleva mangiare, non voleva essere mortale, fare i bisogni, non voleva camminare” E ancora: ”Dovevo fare presto, prima di diventare donna; dovevo andarmene con il mio corpo leggero, prima del rosso, del segno del sangue.” E c’era, fatale, nella pietra di fondazione del suo essere, oscura e luminosa come un diamante nero, il rifiuto analogamente estremo di una identità sessuale definita, etichettata: ”Non sono eterosessuale, non accetto lo schema di lasciarmi penetrare, essere madre di un uomo. Desiderare di fare entrare in me un altro corpo. Non desidero che qualcuno entri nel mio corpo, io sono compiuta, io desidero uscire, volare, raggiungere il cosmo.” E ancora: ”Non sono omosessuale perché io amo dell’altra ciò che non esprime, e che è al fondo delle infinite mie immagini, il femminile come desiderio, la bellezza, la tenerezza, un amore impossibile finché la nostra lotta non avrà ripreso il volto del femminile al di là della violenza e della durezza.” La soluzione avrebbe potuto essere, per Fausta-Faust-Nemesi-Lina, l’androginia psichica (spirituale, sacrale, fisica), come arricchimento e raddoppio della vitalità, delle possibilità, delle energie? Un’androginia positiva, accettata anche socialmente, culturalmente, come valore. E’ quello che sta tentando Pedro Almodovar. Ma, lui, è stato iscritto all’anagrafe con un nome maschile. Ed ha certamente quel gene della banalità, che a Lina mancava. Perdonaci, Lina.
Adele Cambria
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